Giancarlo Macciantelli©2013
Un ragazzo di 14 anni
Nella primavera del 1945, avevo circa 14 anni.
Nella mia dimora a Gaggio Montano, che è vicina alla Chiesa, e che solitamente sin da molto prima della guerra veniva utilizzata dalla mia famiglia come dimora estiva, conobbi nella seconda decade di Gennaio del 1945 il sergente Guerino Del Bianco (o Delbianco) di São Paulo, che aveva l’incarico di aprire, controllare , leggere e censurare (cancellando con un grosso matitone nero, antesignano del pennarello) tutte le frasi o parole di importanza strategica militare dalla corrispondenza redatta dai militari brasiliani della F.E.B. e diretta ai loro familiari in Brasile.
Sul portone esterno in legno della mia casa, c’era inchiodato un grande cartello scritto in inglese ed in brasiliano :
“BEF – Brazilian Expeditionay Force / FEB - Força Expedicionaria Brasileira”.
Ricordo che sul giornale “O Cruzeiro do Sul”, in una colonna a metà pagina, quasi subito sotto il titolo del giornale, apparve la foto del suddetto sergente con un articolo in cui veniva descritto il fatto che il sergente, oltre a compiere il proprio dovere, aveva appreso a pelare le patate nella cucina di mia mamma; credo che il giornale portasse una data che poteva essere tra la metà del mese di febbraio 1945 e la metà del mese di marzo 1945.
Non sono mai riuscito a recuperare una copia di tale giornale militare.
Alcuni mesi prima, e cioè dalla seconda decade del mese di ottobre 1944 e sino a circa la metà del gennaio 1945, in Granaglione, nella casa dei miei zii nella quale ci eravamo rifugiati fuggendo da Gaggio Montano con i soli abiti che avevamo addosso dopo l’eccidio compiuto dai soldati tedeschi contro la popolazione civile nella zona di Ronchidos dal 28/9/1944 al 4/10/1944, conobbi i primi soldati brasiliani tra cui un De Oliveira, che mi disse di essere il figlio del proprietario della Metallurgica De Oliveira ritengo di São Paulo.
Tale militare faceva parte del “Segundo Pelotãon de Cavalaria Blindada, Esquadrão de Reconhecimento” comandato dall’ allora tenente Plinio Pitaluga, ovviamente oltre a tanti altri soldati, alcuni dei quali mi rilasciavano dei bigliettini di carta su cui c’era scritto il loro nome ed il loro indirizzo in Brasile.
Tali bigliettini furono da me conservati per molti anni, ma in seguito quasi tutti smarriti.
A quei tempi e cioè nell’ inverno 1944/1945 non mi rendevo conto dei motivi per cui i militari brasiliani mi consegnavano quei pezzetti di carta, mi pareva un gesto gentile, quasi un invito ad iniziare uno scambio di corrispondenza a guerra finita.
Solo molto più tardi, crescendo in età, compresi che in quei biglietti c’erano gli indirizzi delle loro famiglie, alle quali avrei potuto scrivere qualora i soldati non fossero rientrati dopo le frequenti azioni di assalto alle postazioni tedesche.
Infatti eravamo vicinissimi alle linee di combattimento.
Per quanto riguarda il rapporto con i brasiliani, posso affermare con tutta sincerità, che da parte dei militari (denominati PRACINHAS), fu sempre improntato ad un grande senso di umanità nei confronti della popolazione civile ed in modo particolare verso noi ragazzi.
Una leggera somiglianza della lingua, favoriva i contatti, anche se all’ inizio tutti eravamo un poco timorosi, a causa della propaganda fascista che ci descriveva le truppe di colore come….. selvaggi.
Ricordo che giunsero a Granaglione, in pieno inverno, con divise di tela verde-oliva leggere e comunque non adatte al nostro rigido clima, inoltre alcuni provenivano da zone interne del Brasile e non avevano mai visto la neve. Soffrivano enormemente il freddo.
Li abbiamo accolti nelle nostre misere case, li facevamo sedere vicino al focolare, cercavamo di crearli attorno un ambiente familiare , in cui potevano parlare dei loro cari e della loro Patria ; ma la “SAUDADE” era tanta.
Ci regalavano alcune cioccolate e qualche biscotto, ma notavamo anche che il “RANCHO” fornito dagli USA (la razione K) non era di loro gradimento.
E solo molto più tardi poterono avere i loro cibi tradizionali: mingao, tapioca, manioca avrebbero preferito i loro fagioli neri.
Ricordo che al momento del “RANCHO” in Granaglione, mi aggiravo tra i soldati che mangiavano in piedi e all’ aperto e, con un tegame in mano, raccoglievo gli avanzi dei cibi che i militari generosamente facevano cadere nel mio tegame.
Con quegli avanzi, almeno una volta al giorno, cenava la mia famiglia composta da quattro persone.
Alcuni sergenti mi chiedevano – in cambio – la coniugazione di alcuni verbi italiani.
E così all’ aperto, al freddo e tra un boccone e l’altro i sottufficiali venivano a conoscere le difficoltà dei verbi irregolari italiani.
La popolazione civile attendeva davanti alle cucine militari da campo, di poter contendersi ciò che rimaneva in fondo ai grandi pentoloni.
Un pomeriggio, verso sera, a Granaglione con vicino un soldato brasiliano, entrambi seduti lungo la strada comunale su un mucchio di neve gelata, mentre ciascuno di noi stava inserendo nei caricatori metallici neri dei mitra le pallottole con le dita delle mani rosse dal freddo e toglievamo invece dai nastri da 250 colpi delle mitragliatrici nord-americane Browing, i proiettili con la punta colorata di rosso (le traccianti), per sostituirle con proiettili dalla punta colorata di nero o di azzurro, in preparazione di un immediato assalto notturno a Monte Castello, passò davanti a noi un gruppetto di ufficiali, tra cui il Comandante Gen. João Baptista Mascarenhas de Moraes.
Il Generale, alto circa un metro e sessanta o anche meno - con i suoi occhialini tondi – si fermò davanti a me, guardò cosa stessi facendo, disse qualche parola agli altri ufficiali e poi passò oltre.
Il militare che era con me, non si scompose, non si alzò, non salutò nessuno, l’unico a restare meravigliato in quanto abituato a vedere la ferrea disciplina tedesca, fui io.
Riconobbi - tra gli ufficiali che erano al suo seguito - un militare con la divisa italiana, era il luogotenente del Regno d’Italia, Umberto II, figlio del re Vittorio Emanuele III.
Durante il giorno, con un recipiente metallico da 25 litri, andavo alla fontana più vicina a prendere l’acqua per i servizi della cucina militare brasiliana. Anch’ io davo il mio piccolo contributo.
Appena si presentò l’occasione, tentammo di notte e di nascosto di rientrare da Granaglione a Gaggio Montano eludendo il severo controllo della Polizia Militare Nord Americana effettuato sul ponte di Silla.
Io e mia mamma eravamo sdraiati nel cassone di un camion brasiliano, sotto un bel mucchio di coperte di lana.
Gli M.P. non se ne accorsero e così passammo il posto di blocco.
Era quasi la metà del mese di Gennaio 1945.
Ritornati a Gaggio Montano, trovammo nella nostra casa i soldati della F.E.B.
Io mi preoccupavo di indicare agli ufficiali osservatori dell’artiglieria brasiliana, i movimenti delle truppe tedesche nella zona di Bombiana e di Case Guanella.
E per i tedeschi erano cannonate.
Un giorno, mia mamma volle preparare ai soldati che erano in casa nostra, un caratteristico piatto bolognese “le tagliatelle”.
Ci fu un’affannosa ricerca di farina di grano e di uova.
Non fu trovato né l’una né le altre.
Allora mia mamma dovette accontentarsi di una farina bianchissima (credo fosse farina di mais bianco, o di riso, o chissà) e di polvere di tuorlo d’uovo liofilizzato.
Il condimento delle tagliatelle si limitò al burro (che dovevamo chiamare MANTEIGA) perché burro in brasiliano, significa: asino.
Quindi il classico ragù di carne non ci fu.
Sulle mie calde tagliatelle all'uovo, condite con il burro, un militare che mi sedeva vicino, versò una certa quantità di aceto, con il mio iniziale disprezzo; ma la fame di noi tutti era tanta che velocemente i piatti si ritrovarono vuoti.
Prima dell’arrivo delle truppe brasiliane, la situazione alimentare dei civili era molto precaria.
Eravamo fuggiti da Bologna, in quanto abitavamo vicino alla stazione ferroviaria, frequente bersaglio dell’aviazione alleata.
A Granaglione l’unico alimento era costituito dalla sola farina di castagne o di castagne secche , finché ce ne furono, poi fu la fame.
Mangiavamo le radici bollite dei radicchi.
Il ricordo della guerra, ha lasciato in me un’avversione profonda verso le armi da fuoco.
Ogni volta che torno nella mia casetta di Gaggio Montano, per un periodo estivo, e vedo il crinale della Serra di Ronchidos ed il vicino Monte Castello, simbolo di eroismo delle Compagnie comandate dai capitani Everaldo Josè da Silva e Paulo de Carvalho, rispettivamente del 1° Btlh. del Major Olivio Gondim de Uzeda e 3° Btlh. del Major Franklin Rodrigues de Moraes del 1° R.I. Sampaio, non posso dimenticare il sacrificio di centinaia di vite umane, civili e militari.
Conosco i motivi che portarono all’ entrata in guerra del Brasile contro il nazi-fascismo, in quanto in possesso di varie pubblicazioni militari brasiliane.
So anche della iniziale opposizione di una parte della popolazione civile brasiliana di origine tedesca, e delle pressioni politiche nei confronti del governo e del presidente Getulio Vargas, affinché non accettasse l’invito degli USA a collaborare con gli Alleati.
Ricordo il racconto di un episodio che cominciò a circolare tra i “PRACINHAS” e cioè che un brasiliano (forse un ufficiale), dopo essersi coperto con un lenzuolo bianco e mimetizzandosi nella neve, che in quei giorni era molto alta, riuscì a portarsi sino sotto il bunker di una postazione tedesca, scavata entro la montagna.
Dalla feritoia un fucile mitragliatore tedesco MG42-Maschinen Gesellschaft da 1.200 colpi al minuto(dai brasiliani definito LOURDINHA) sparava sui soldati, impedendoli di avanzare.
Il suddetto brasiliano attese che i tedeschi sostituissero il nastro metallico esaurito del mitragliatore, prese con una mano – protetta da un grosso guantone – la rovente canna del mitragliatore, lo sfilò fuori dalla feritoia e con l’altra mano lanciò all’ interno del bunker una granata tipo ananas, da 48 schegge, già priva di sicura, con l’effetto facilmente immaginabile.
Invece, un altro episodio del quale fui testimone presente, avvenne, ritengo nella prima decade del mese di febbraio 1945, nei pressi della mia dimora.
Un piccolo reparto brasiliano era alloggiato in una casa vicina.
Era al comando di un ufficiale alto, corporatura possente, biondo, figlio di emigranti tedeschi.
Lo conoscevo perché veniva a mangiare a casa mia, però ora non ricordo il nome.
Un giorno arrivò dalla vicina linea del fuoco, una jeep con rimorchio guidata da un soldato.
L’autista scese dalla jeep ed andò a presentarsi all’ ufficiale.
Dalla casa uscirono altri due soldati, parlavano a bassa voce e con molta tristezza.
Riuscii a capire che quei sacchi che erano sul rimorchio, appartenevano a soldati che sino a qualche giorno addietro erano tra noi e che erano stati uccisi dalle mine.
Iniziò lentamente l’apertura dei sacchi con l’estrazione degli indumenti e degli effetti personali dei caduti.
Gli oggetti personali che erano appartenuti ai militari venivano raccolti in un mucchietto a parte, visionati, elencati dal tenente che era seduto a terra, per poi essere spediti in Brasile ai familiari dei caduti.
Assieme ad un mio coetaneo assistevo con mestizia al triste rito, osservando le varie fotografie che venivano tolte dai portafogli e gli altri oggetti-ricordo personali.
Con un po’ di immaginazione tentavamo di indovinare chi potevano essere le persone delle foto.
Anch’ io ero accosciato a terra.
Ad un tratto, da un sacco che mostrava grossi buchi passanti, fu estratto un giubbotto arrotolato.
Il giubbotto sollevato con le mani dal militare, fu aperto e vidi che portava grossi fori.
Purtroppo, avvolta nel giubbotto e non si sa il motivo, c’era una bomba a mano.
Le schegge che avevano trapassato il sacco e l’indumento, avevano anche asportato la prima sicura (quella con l’ anella delle bombe tipo ananas.
Nel sollevare il giubbotto, la bomba cadde a terra, rotolando e passando davanti ai miei piedi; nel frattempo vidi che anche la seconda sicura era saltata via.
Entro 7 o 8 secondi sarebbe avvenuta l’esplosione.
Il mio amico ed io, con quattro salti, ci riparammo velocemente dietro ad un muro vicinissimo.
Il mio amico era raggomitolato a terra con le mani contro le orecchie.
La mia incosciente curiosità fu più forte della paura.
Mi affacciai da dietro il muro e vidi una scena che non potrò mai dimenticare : mentre i tre soldati brasiliani si erano gettati a terra coprendosi anche loro le orecchie con le mani, gridando “ A MINA” (una bomba), il tenente si avvicinò alla granata, si chinò su di essa, la raccolse e la lanciò lontano in aria, in direzione del vecchio cimitero di Gaggio, poi anche lui si gettò a terra.
La bomba, appena in aria , esplose con un lampo ed un frastuono assordante.
Le schegge sibilarono vicino e si conficcarono nella parete della casa di fronte.
Nessuno rimase ferito.
I tre soldati si alzarono, bianchi in viso come cadaveri e, cosa mai vista fare da soldati brasiliani, si irrigidirono sull’ attenti davanti al loro tenente che ci aveva salvato la vita.
Il tenente rispose al saluto e, come se nulla fosse successo, riprese il triste incarico di informare i familiari dei propri soldati caduti in azione di guerra, per la liberazione del mio Paese.
A questo punto la mia tensione nervosa, crollò.
Quanto sopra è una parte di un mio lungo intervento in un Convegno a Genova, al quale fui invitato e tenutosi l’ 11 settembre 2004 con la presenza dei professori universitari Rodolfo Passagrilli, Fabio Giannelli, Amina Di Muno e di un altro, sulla partecipazione del Brasile alla guerra.
Parlai per circa due ore; ricordai anche la presenza delle 67 infermiere volontarie brasiliane, (che non parlavano inglese e che furono assegnate agli ospedali da campo in cui operavano chirurghi USA che non parlavano portoghese), tenendo sulle spalle la bandiera brasiliana: a bandeira do pais com o céu azul cheio de estrelas, infatti sulla bandiera brasiliana c’è la costellazione della Croce del Sud.
Le foto seguenti si riferiscono al Convegno di Genova.